IN COPERTINA
Illustrazione di Karl Walser per Die Nachtwachen des Bonaventura, Bruno Cassirer, Berlino, 1910.
SINOSSI

Quando apparvero queste Storie, nel 1914, un giovane recensore, Robert Musil, mise subito in guardia i lettori: «Uomini di spirito positivo e donne dotate di forte caritas troveranno queste trenta piccole storie un po’ troppo giocose. Ad esse sarà rimproverato di non dimostrare alcun carattere, di essere capricciose, di gingillarsi con la vita, anzi magari di non avere cuore e di lasciarsi impressionare da quella sbalorditiva determinazione con cui l’insignificante, per esempio una panchina in giardino, talvolta occupa il suo posto nel mondo». Con quella ironica precisione che era per lui la socia inseparabile dell’anima, Musil ha accennato qui alla peculiarità di Robert Walser in un genere letterario, la «prosa breve», in cui oggi lo riconosciamo maestro. Ma le Storie non contengono soltanto campioni disparati di «prose brevi»: almeno due testi, Kleist a Thun, uno dei vertici dell’arte di Walser, e La battaglia di Sempach hanno una perfetta misura di racconti. Il primo, nella sua tensione, quasi insostenibile, è forse l’unico testo del nostro secolo che sembra proseguire il Lenz di Büchner; il secondo è una visione grandiosa, dove il sangue sgorga da araldici fantocci e il cozzare delle armi si blocca in un sospeso miraggio.
Dietro la giocosità di Walser, dietro l’ingiustificata euforia che a tratti erompe nelle sue pagine, c’è qualcosa di immensamente oscuro e delicato. Da dove vengono questi suoi personaggi, non solo l’allucinato Kleist ma certe labili silhouettes ricorrenti, come il piccolo impiegato Helbling, lo studente Fritz Kocher o il paggio Simon? Benjamin rispose che «vengono dalla notte, là dove essa è più nera, da una ‘notte veneziana’, se vogliamo, illuminata dai miseri lampioni della speranza, con un qualche splendore festivo nell’occhio, ma turbati e tristi da piangere. Ciò che essi piangono è prosa». Una prosa che tocca una corda molto nascosta e raggiunge la bellezza più rara, quella cui Walser più teneva, quella che si ha «quando in apparenza il bello non lo si avverte affatto, ed è solamente una cosa come sono anche le altre».

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