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Johannes Urzidil

L’amata perduta

Traduzione di Sergio Solmi, Renata Colorni, Vittoria Ruberl

Biblioteca Adelphi, 124
1982, 3ª ediz., pp. 267
isbn: 9788845905162

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IN COPERTINA
Odilon Redon, Ritratto di Mille Violette Heymann (1910). Museum of Art, Cleveland.
SINOSSI

L’amata perduta di cui ci parla questo «romanzo in racconti» è innanzitutto Praga, ma anche il passato, il padre e figure di donne che appartengono a quel passato – esseri della memoria da cui l’autore ha dovuto congedarsi e ora ritrova, dopo lunghi vagabondaggi, nel mondo extraterritoriale della narrazione. L’avvio è nell’infanzia: due colibrì imbalsamati, un profumo di mele arrostite, il «caos paradisiaco» di un solaio, la cadenza di una filastrocca, l’incanto di una trapezista, un castello misterioso. Come chiazze successive di colori, i fatti si dispongono intorno al narratore, gli si sovrappongono, ne intridono la figura. Urzidil è riuscito nell’impresa di raccontare frammenti della sua vita nel tono più intimo, ma riuscendo a mimetizzare l’Io in una fioritura disparata di personaggi, dal fattorino Kubat, col suo berretto rosso, che recapita impeccabilmente messaggi amorosi e fatali, alla piccola Otti Stifter, mite folletto che sembra reincarnare, nel nome e nel destino, il grande Adalbert Stifter. Storia dopo storia, questa prosa isola alcuni tratti lucenti nel tortuoso, oscuro formarsi dell’esperienza.
Amico di Kafka (fu lui a pronunciare il discorso commemorativo dopo la morte dello scrittore), giovane poeta espressionista nella Praga intorno alla prima guerra mondiale, Urzidil scoprì la sua vera vocazione e il suo timbro di narratore piuttosto tardi, quando l’esilio lo aveva spinto negli Stati Uniti. L’amata perduta, pubblicato nel 1956, è appunto il libro in cui la sua arte si dichiara pienamente: un’arte dell’evocazione, mirabilmente concreta e precisa, ricca di umori e di humour, che presuppone un’assenza, una irreparabile perdita: «Un giorno ci accorgiamo che qualcosa di indicibilmente serio viene sempre più vicino a noi e vuole essere accolto nella nostra coscienza. Un giorno comprendiamo il senso del commiato. Un giorno! o meglio, un attimo di un certo giorno, un attimo del tutto indifferente, sobrio e privo di pathos: forse stiamo solo avvicinando un bicchiere alla bocca, o temperiamo una matita, o ci accomodiamo su una poltrona, o forse addirittura non facciamo niente, stiamo soltanto seduti e guardiamo davanti a noi».

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2002 / pp. 207 / € 10,00  € 9,50
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