Emilio Cecchi, Gianfranco Contini

L’onestà sperimentale

Emilio Cecchi, Gianfranco Contini

L’onestà sperimentale

Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini
A cura di Paolo Leoncini
La collana dei casi, 46
2000, pp. 175
isbn: 9788845915321
Temi: Epistolari, Letteratura italiana, Critica e storia letteraria
€ 25,00 -5% € 23,75
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Risvolto
Chi abbia letto il profilo che nel 1968 Contini dedicò a Cecchi nell’ambito della Letteratura dell’Italia unita non può che essere rimasto colpito dagli accenti di ammirazione che percorrono, quasi un fremito sottocutaneo, una prosa critica per solito non meno densa che controllata: «Sorse perciò quel particolare genere di “elzeviro” ... a cui qualche volta si diede il nome della sua prima raccolta di questo tipo (1920), Pesci rossi ... Tali “saggi” ... costituiscono un risultato fondamentale della prosa d’arte del secolo». Un’ammirazione antica, che risale alla giovinezza e alla «alpina irrimediata solitudine» di quegli anni, e di cui è testimonianza il saggio – di strepitosa perspicacia – che nel 1932 un Contini appena ventenne e aspirante «filologo di neolatino» (si sarebbe laureato l’anno successivo a Pavia con una tesi su Bonvesin da la Riva) pubblicò sulla «Rivista Rosminiana»: Emilio Cecchi, o della Natura. Come accadrà di lì a poco con Montale (l’Introduzione a E. Montale è del 1933), l’intervento su Cecchi, uno dei primissimi scritti continiani di critica militante, accende un intenso scambio epistolare, che si dispone lungo l’arco di oltre un trentennio, dal 1932 al 1965. E, benché siano andate perdute le lettere di Cecchi degli anni Trenta e Quaranta – a seguito dell’incursione fascista nella casa ossolana di Contini nel ’44 –, il carteggio documenta non solo un percorso ermeneutico esemplare, suscitato da una adesione profonda e rispettosa («fui uncinato alla letteratura proprio da quello che consideravo, dormendo ormai D’Annunzio, e considero ancor oggi, il più grande prosatore d’Italia» scrive Contini nel 1961), ma soprattutto un dialogo in cui al lettore è dato di ripercorrere due esperienze fra le più alte, e segretamente affini, che la letteratura italiana del Novecento abbia conosciuto: la passione bicefala di Contini per i contemporanei e gli antichi testi («E appunto, mi sono dimenticato di chiederLe se Cavalcanti Le sembri ancor oggi un grande poeta. Le confesso che ... m’interessano molto di più i Provenzali; ma forse Ungaretti non li legge ... E, certo, sarebbe interessantissimo che qualcuno si mettesse oggi a indagare il senso segreto di quella poesia e le variazioni del suo “ermetismo”»), e l’inesauribile curiosità intellettuale di Cecchi, capace di spaziare dalla venerata letteratura inglese otto-novecentesca alla pittura dei primitivi.