Colette
Il mio noviziato
Biblioteca Adelphi, 113
1981, 3ª ediz., pp. 142
isbn: 9788845909962
Quando Colette, ventenne, arrivò a Parigi, «non era che una giovane sposa» cresciuta in campagna e non sapeva di avere accanto a sé un affascinante, sottile mostro: Monsieur Willy, con la sua «fronte rosea, illimitata e possente», negriero di una squadra di scrittori chini a lavorare oscuramente per lui, che però aveva più talento di loro. Accanto a Willy, Colette fu introdotta a una Parigi oscillante fra la bohème letteraria, il demimonde e il grand monde, fra scrittori come Marcel Schwob, grandi cocottes come la Otero e varie aspiranti al ruolo di Madame Verdurin. Ma la visione che più la intrigava, e quasi la paralizzava, era Willy stesso. Quale appare dalle pagine del Mio noviziato, Willy è un personaggio immenso. Dietro alle sue perfidie, ai suoi imbrogli, alle sue crudeltà, permane un elemento di mistero. Ci si domanda addirittura se la sua strepitosa inventiva di industriale della letteratura, se la sua capacità di vivere numerose vite contemporaneamente, ingannando tutte le sue vittime femminili, se la sua lancinante passione per il denaro non fossero altrettante prove di art pour l’art, procedimenti che si appagavano della perfezione della propria forma più che dei bruti risultati pratici. Colette subì e capì come nessuno questo monstrum psicologico, divisa fra la gelosia selvaggia e una sinuosa complicità. A Willy donò il più grande successo, permettendogli di passare come autore della serie dei libri di Claudine. E Willy le donò la scoperta di essere una scrittrice. L’intreccio erotico, letterario, economico, mondano fra questi due esseri divenne col tempo sempre più fitto. La figura di Willy appariva sempre più incombente e indecifrata.«Aver lavorato per lui, accanto a lui, ha fatto sì che io lo temessi, non che lo conoscessi meglio» osserverà lucidamente Colette. Nei tredici anni del suo ‘noviziato’ con Willy, Colette «si era messa a soffrire con un orgoglio e una testardaggine intrattabili». Ma è questo anche il periodo in cui fu costretta a imparare la vita con quella sovrana precisione che le guidò poi la mano in tanti suoi libri.
Il mio noviziato apparve nel 1936, cinque anni dopo la morte di Willy e trent’anni dopo che Colette lo aveva abbandonato. Una lunga esperienza di scrittrice si era dovuta accumulare prima che Colette si azzardasse a raccontare una storia così rischiosamente intima. Ma ne è risultata una delle sue opere più perfette, più calibrate. Quando il libro apparve, André Gide annotò queste parole nel suo Diario: «Letto l’ultimo libro di Colette con interesse vivissimo. Vi ho trovato ben più che il talento: una sorta di genio molto peculiarmente femminile e una grande intelligenza. Che scelta, che articolazione, che felici proporzioni in un racconto così apparentemente brado! Che tatto perfetto, che cortese discrezione nella confidenza (nei ritratti di Polaire, di Jean Lorrain, e soprattutto di Willy, di “Monsieur Willy”); non c’è un colpo che non vada a segno e non rimanga nella memoria, e tutto tracciato come seguendo il caso, come giocando, ma con un’arte sottile, matura».