Copertina del volume: La lente scura

Anna Maria Ortese

La lente scura

Scritti di viaggio

A cura di Luca Clerici

Biblioteca Adelphi, 462
2004, 2ª ediz., pp. 501
isbn: 9788845918964

€ 28,00  (-5%)  € 26,60
IN COPERTINA
Thomas Jones, Case a Napoli (1782). National Museums and Galleries of Wales, Cardiff.
SINOSSI

Anna Maria Ortese ha sempre intensamente viaggiato. Si può anzi dire che tra la fine della guerra e gli ultimi anni Cinquanta non abbia fatto che viaggiare. Per necessità, certo, ma anche per un innato nomadismo, un senso di immedicabile estraneità che la conducono da un treno all’altro, da una stanza d’albergo a una camera in affitto, in una fuga che pare guidata da «segni misteriosi, come paletti affioranti da una laguna».
Così, gli articoli e i racconti di viaggio della Ortese sono spesso filtrati da una lente scura, da un fosco cristallo di malinconia e protesta che carpisce alle cose la loro faccia buia. E proprio per questo sono unici. Perché la lente scura ci mostra, come per un sortilegio ottico, ciò che non avremmo saputo (o voluto) vedere. Ci mostra ad esempio Roma avvolta da un’«aria d’insensibilità enorme, da lebbrosario» e Genova sollecita e fraterna, con una «spontanea e quasi prodigiosa capacità di affiancare chi è stanco». Ci addita nella Russia del 1954 un paese dove subito si stabiliscono «intese tenere e strane, ci si prende la mano nello stesso modo impulsivo e ingenuo, tipico dei ragazzi». Ci svela che Parigi è un’idea di realtà, un prodotto dell’immaginazione e del genio, Lecce una piccola Cuzco, e che a Napoli c’è meno angoscia, meno desolazione e struggimento, ma anche più atonia e indifferenza. Sempre, la lente scura fa affiorare verità inaccettabili, dolorose: come la «smania di liberazione, di felicità, di vita» di Montelepre, il paese di Salvatore Giuliano, o le imboscate del 38° Giro d’Italia, conclusosi col trionfo dei vecchi idoli e il pianto di Gastone Nencini. Una percezione che, a ben vedere, dipende dalla devozione della Ortese, viaggiatrice visionaria, per un luogo che non c’è, una Utopia «sempre alta e presente come una luce bianca tra le nuvole basse, nello sconfortato vivere».

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«Ortese è in grado di colloquiare con tutto ciò che è “altro” – l’ignoto, il sogno, la morte, l’estraneo, il diverso, l’animale – e insieme di rappresentare il volto nascosto della femminilità, che è misteriosa fusione di anima e corpo» (Marco Belpoliti).
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