SINOSSI

Vi sono alcuni libri, nei secoli, che escono dalla letteratura per diventare mitologia: il personaggio, il disegno della vicenda, assurgono in questi casi a un valore universale, e le generazioni che si succedono nel tempo vi riconoscono, volta a volta, i significati che il loro angolo visuale riesce meglio a cogliere e ad assimilare. Così è di Robinson e della sua isola, come delle peripezie di Ulisse, o di Don Chisciotte o di Gulliver. Sono libri che pensiamo di conoscere perché fanno parte di una tradizione in cui viviamo sin dalla prima infanzia, ma che in realtà non si conoscono mai poiché la loro vitalità è inesauribile. Leggiamo il "Robinson Crusoe" quando siamo bambini, in riduzioni più o meno felici, che ne conservano soltanto la nuda trama avventurosa; eppure questo basta a imprimere in noi, con un segno indelebile, l’immagine di quel naufragio, di quell’isola deserta, di quelle traversie. Riletto più avanti negli anni, nel suo testo integrale, ci apparirà come un libro nuovo: per esempio, come una parabola dell’uomo moderno, appetitivo, deciso a dominare il mondo fuori di lui, e che trova la propria salvezza nella creazione degli oggetti, che «ridà dignità e bellezza alle azioni comuni, alle cose comuni». I dati fondamentali della vicenda ci sono ormai noti e la nostra attenzione sarà libera di concentrarsi sui dettagli, su quei fatti minuti di cui si serve l’arte di Defoe (e si può anche dire che egli è stato il primo grande «reporter» moderno) per rendere plausibile un racconto così «straordinario». «Ribadendo che in primo piano non c’è altro che una ciotola di terracotta,» come dice Virginia Woolf «egli ci persuade a vedere isole remote, e le solitudini dell’anima umana».