Basta leggere che i versi giovanili di Rimbaud sono minati da «negligenza e goffaggine»; che per penetrare la grandezza di Tolstoj bisogna procedere oltre «quella cocciutaggine nel voler salvare la propria anima e se ne avanza laltrui»; che lInnominabile di Beckett, se può sembrare eccezionale ai profani, rischia di far «sorridere familiarmente lo psichiatra»; bastano insomma queste poche sequenze di apparente irriverenza blasfema per capire che non siamo di fronte a un critico di routine o a un cauto professore. Ci troviamo, infatti, in quella particolare regione della geografia letteraria composta dagli articoli di Tommaso Landolfi: quella regione, cioè, in cui lo scrittore più elusivo e idiosincratico del nostro Novecento rivela laltra faccia del proprio understatement nella radicalità tipica di chi si ostina a credere, dietro la maschera dellironia, «che la letteratura sia una cosa seria». È in nome di una acuta tensione conoscitiva e non solo per puro spirito di provocazione che questi veri microsaggi procedono spesso contromano rispetto alle quiete certezze della vulgata. Ma Landolfi è illuminante anche laddove la sua analisi non produca ribaltamenti eversivi: come nei casi di Van Gogh, di Proust o del Gogol a Roma che dà il titolo alla raccolta, «perenne forestiero» la cui estraneità di viaggiatore allude a una più vasta estraneità esistenziale. O come quando si concede fulminei scarti dai massimi sistemi regalandoci così riflessioni spregiudicate e antiaccademiche sulla filologia di unedizione, sulla traduzione, sui limiti di ogni teoria della letteratura e aperture a temi extraletterari quali la metafisica della roulette e il caos deterministico, la civiltà cibernetica e lintelligenza degli animali. Non siamo del parere che tutto sia ammissibile in letteratura, e che questa possa essere il campo dei più capotici esperimenti; al contrario, ci sembra che alcune cose siano alla letteratura peculiari quanto necessarie, per non dir altro lespressione, e non già appena (seppure) lesigenza di essa. La letteratura, per esempio, non può avere la funzione di acquaio delle angosce, vere o false; le quali se mai (persin ci vergognamo di doversi riferire a una nozione tanto elementare) hanno da essere perfettamente dominate prima di passare sulla pagina. E, per dirla in breve, noi ci ostiniamo a credere, magari a ritroso degli anni e dei fati, che la letteratura sia una cosa seria». Gogol a Roma raduna testi usciti sul «Mondo» fra il novembre 1953 e il marzo 1958.
«Già: come si può guadagnarsi la vita inventando elzeviri?» si chiede Landolfi in Des mois. D’altronde, per lui che dopo Un amore del nostro tempo (1965) aveva abdicato alla «follia» di raccontare storie, non c’era altra scelta: questione di sopravvivenza. Ma il punto è un altro: quelli che Landolfi chiama «innocenti raccontini» nulla hanno a che vedere con gli altrui elzeviri.
Non è amabilmente consolatore, il mondo di Landolfi, né amichevole, né tantomeno compiacente. Estraneo, piuttosto, luminosamente torbido e degradato. E, come in questa raccolta di racconti del 1975 – l'ultima sua –, più che mai urtante, percorso com'è da un eros luttuoso e sogghignante, da orride agnizioni, da avvilenti confessioni, da personaggi oltraggiati dalla vita, feriti dall'«invalicabile...