Prima luce è un libro sulla morte, sulla morte della madre, anzitutto, e su quella di ciò che trascorre investendoci con un lascito prezioso di ardente e melanconica nostalgia. Un libro sul morire che sinsinua nella giornata di ciascuno di noi, e di riflesso un libro che canta la gratitudine per il dono della «luce silenziosa del mattino su steli derba lucente», inimitabile come sa esserlo la collera di un dio o un prodigio che si rinnova. Più che mai Walcott è qui poeta del mare, artigiano devoto al dettaglio paesaggistico, che usa come lente per mettere a fuoco lansia del mutamento che tutto contamina. Nelle sue isole caraibiche le colline e i promontori sono infestati da una vegetazione rigogliosa, da colori eccessivi come quelli di antichi templi fiammeggianti doro. «La capacità descrittiva di Walcott è veramente epica» ha scritto di lui Brodskij, lamico a cui sono dedicate le Egloghe italiane, uno dei componimenti più alti del libro: «E lalveare delle costellazioni riappare, sera dopo sera, / nella tua voce, nel buio canneto dei versi che risplende di vita». Prima luce è stato pubblicato per la prima volta nel 1997.
Egrette bianche, la quattordicesima raccolta di poesie di Derek Walcott, fonde elegia e rapsodia, sul ritmo di temi ricorrenti come l'eredità coloniale e lo spettro dell'impero, l'approssimarsi della morte e la scomparsa degli affetti, l'insofferenza per il turismo («una schiavitù senza catene, senza sangue sparso») e un amore per il viaggio vissuto nella consapevolezza –...
«C'è un'esultanza fortissima, una celebrazione della fortuna, quando uno scrittore è testimone degli albori di una cultura che si definisce da sé, ramo dopo ramo, foglia dopo foglia...» scrive Walcott parlando dei Caraibi, e di uomini e donne che «non leggono ma sono lì per essere letti, e se vengono letti nel modo giusto creano la propria letteratura».