2021 / pp. 210 / € 15,00 € 14,25
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Piccola Biblioteca Adelphi
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A un primo sguardo, molte delle più significative icone russe del XIV e XV secolo sembrano viziate da assurde incongruenze, violazioni inspiegabili del canone prospettico e della conseguente ‘unità’ della rappresentazione: edifici di cui vengono raffigurati insieme la facciata e i muri laterali; libri (i Vangeli) di cui si scorgono tre o addirittura tutte e quattro le coste; volti con «superfici del naso e di altre parti» che non dovrebbero vedersi; e, a sintesi di tutto, un policentrismo che fa coesistere «piani dorsali e frontali». Eppure, simili icone ‘difettose’ – fondate proprio sull’eresia di prospettive «rovesciate» – risultano infinitamente più creative ed espressive rispetto ad altre più corrette, ma inerti. Come mostra Pavel Florenskij in questa perorazione fiammeggiante – con un excursus storico che si estende dalle scenografie del teatro tragico greco ai vertici della pittura rinascimentale e oltre –, quelle violazioni, lungi dal dipendere da una « grossolana imperizia nel disegno», sono «estremamente premeditate e consapevoli». Di più: riassumono una ribellione, cognitiva prima che estetica, alla stessa egemonia della rappresentazione prospettica e alla sua presunzione di detenere «l’autentica parola del mondo». Ne deriva una sorta di invettiva, in cui il regesto delle carenze della prospettiva lineare e della visione del mondo che la presuppone si traduce, a contrario, in quello dei caratteri richiesti dall’«arte pura»: la sola che ci permetta di accedere – come le dorate «porte regali» dell’iconostasi – all’«essenza delle cose» e alla «verità dell’essere».
A cura di Adriano Dell’Asta.
«Normalizzare matematicamente i metodi di rappresentazione del mondo è un obiettivo follemente presuntuoso».