«Io ho una gamba di legno ... Ragion per cui odio le donne»: così esordisce, sfidandoci con la sua voce grottescamente raziocinante, il protagonista di Leterna provincia prima di travolgerci col disegno di una gelida vendetta: farà innamorare di sé alla follia una donna e poi la umilierà con lo strumento della sua stessa menomazione per punire attraverso di lei tutte le donne. Ma al momento decisivo, quando la prescelta una giovane formosa e bella, segnata da una «sconosciuta ed affiorante pena» sarà nuda e pudica di fronte a lui, limprevedibile accadrà. Nella vita, del resto, tutto è incerto, contraddittorio. Tutto è a caso. Ogni cosa sembra essere «in margine a se medesima», e persino gli affetti familiari e la letteratura offrono solo irragionevoli appigli, talché in I due figli di Stefano allo scrittore che ha appena perso il figlio indesiderato un «esserino» mostruoso e infernale non resta che contemplare anche il naufragio del poema drammatico cui era affidata la speranza di sfuggire al «fiato guasto delle realtà quotidiane»; e in La dea cieca o veggente la poesia è ridotta a gioco combinatorio, a roulette alla rovescia. «Non domandatemi insomma come sia finita:» si legge a conclusione di Leterna provincia «tutto finisce male».
«Già: come si può guadagnarsi la vita inventando elzeviri?» si chiede Landolfi in Des mois. D’altronde, per lui che dopo Un amore del nostro tempo (1965) aveva abdicato alla «follia» di raccontare storie, non c’era altra scelta: questione di sopravvivenza. Ma il punto è un altro: quelli che Landolfi chiama «innocenti raccontini» nulla hanno a che vedere con gli altrui elzeviri.
Non è amabilmente consolatore, il mondo di Landolfi, né amichevole, né tantomeno compiacente. Estraneo, piuttosto, luminosamente torbido e degradato. E, come in questa raccolta di racconti del 1975 – l'ultima sua –, più che mai urtante, percorso com'è da un eros luttuoso e sogghignante, da orride agnizioni, da avvilenti confessioni, da personaggi oltraggiati...