Dopo aver portato felicemente a termine la prima parte del Mahabharata, Samhita Arni, la nostra narratrice dodicenne, si concede un meritato riposo. Poi, ritemprata dal breve intervallo, si rimette allopera e nel giro di quattro mesi completa il testo, corredandolo di nuove illustrazioni. È più matura, e lo si avverte: il ritmo impresso allazione è ora incalzante, il tono più intenso, contagioso, e i disegni hanno guadagnato in forza ed efficacia. Samhita riprende là dove si era interrotta, dallesilio dei Pandava, concentrandosi sul tema dominante di questa seconda parte, la guerra, che nella sua epica futilità sembra pervadere ogni pagina. Assistiamo così alle splendide, terribili battaglie combattute a Kurukshetra, agli ultimi cruenti nove giorni: descrizioni accuratissime e dolenti, come toccanti sono la morte di Abhimanyu o di Karna, il dolore di Duryodhana. Con un candore che ha il profumo acerbo e acuto della temerarietà, Samhita punta locchio verso linsegnamento ultimo di questa che è la più complicata fra tutte le storie: «Nessuno è perfetto e tutto quello per cui ci si batte potrebbe alla fin fine rivelarsi inutile, nondimeno dobbiamo fare il nostro dovere». È la semplice, inscalfibile noce di saggezza che, estraendola dal Canto del Beato, la Bhagavad Gita, ci porge al termine della sua mirabile impresa la piccola Samhita.
A quattro anni Samhita Arni imparò a leggere e si trovò fra le mani alcune tra le innumerevoli versioni del Mahabharata, l'immenso epos i cui personaggi sono da secoli noti a tutti gli indiani come gli eroi dell'Iliade e dell'Odissea presso di noi. A sette anni era talmente appassionata di quelle storie che cominciò a dettarne una sua versione alla nonna, rovesciando il normale corso...