SINOSSI

I Detti di Rabi’a, qui tradotti per la prima volta in Occidente, sono uno dei grandi testi mistici dell’Islam. Nata in Iraq nel secolo VIII, Rabi’a fu, secondo una tradizione, venduta schiava e resa poi alla libertà dal suo padrone, che un giorno la sorprese sprofondata nella preghiera e tutta avvolta di luce. Secondo altri, fu per qualche tempo suonatrice di flauto, quindi peccatrice pubblica. Dopo l’Illuminazione, visse in assoluta povertà, e chiedendo soltanto «un atomo di povertà di spirito», mentre irraggiava la sapienza delle sue brevi, spesso aspre, paradossali, estreme sentenze, che si tramandarono poi nei secoli. Morì in grande vecchiaia, «ridotta come un piccolo otre consunto che sta per afflosciarsi». I suoi Detti sono schegge brucianti e vanno posti all’origine della linea mistica più radicale dell’Islam, il sufismo, di cui Rabi’a è stata detta «la madre». E del sufismo Rabi’a incarna un sublime ‘eccesso’: quel distacco invalicabile dal mondo per cui tutto, anche la devozione compunta, le appariva come distrazione e ostacolo, come il primo dei veli che tengono lontano colui che pure, secondo uno dei novantanove «bellissimi nomi» con cui Dio è invocato nell’Islam, è il Vicino, più vicino a noi stessi della nostra vena giugulare.