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Christopher Burney

Cella d’isolamento

Traduzione di F. Bovoli

Biblioteca Adelphi, 18
1968, 3ª ediz., pp. XXII-182
isbn: 9788845900525

€ 18,00  (-5%)  € 17,10
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IN COPERTINA
Fregio tratto dall’Album di Fatih (XV sec.).
SINOSSI

L’ultima guerra, per aver prodotto condizioni inaudite di vita e di morte, ha anche rivelato, come contraccolpo, forme nuove dell’umano, facilmente riconoscibili, perfino troppo omogenee se nella massa immensa di memorie, cronache, diari che da quegli anni ci vengono, raramente accade che il peso dei fatti non finisca per imprimere sulla persona che racconta il marchio del risentimento, e che una voce si levi al di sopra della paura, del sangue e delle sterili rivendicazioni.
Tra le poche eccezioni, quasi tutte ben note al pubblico italiano, ve n’è una che, forse per l’estrema, britannica discrezione che la caratterizza, ci è ancora sconosciuta: è il caso di Christopher Burney, eroe dissimulato, solitario per elezione, che durante la guerra incontrò nella sua sventura un’esperienza decisiva, a cui questo libro, pubblicato per la prima volta sette anni dopo la fine del conflitto, è dedicato. Lanciato col paracadute in Francia nel 1942 per stabilire contatti con elementi della Resistenza, Burney venne arrestato poco dopo e rinchiuso per diciotto mesi a Fresnes, in cella d’isolamento, da cui uscì soltanto per un paio d’interrogatori. Sarà poi deportato a Buchenwald, «l’affollato, rumoroso, disgustoso opposto» della cella di Fresnes, ma di questo periodo l’autore non ci parlerà.
È del suo «esercizio di libertà» nella solitudine che Burney vuole rendere testimonianza: in un procedimento lento, cauto, senza rivelazioni improvvise, ma con un progresso costante verso una sempre maggiore trasparenza, egli riscopre, nella sua cella, il mondo, non più dalla parte del continuo eccesso e della sovrabbondanza della vita, ma da quella più oscura e rara della spoliazione, della prossimità della morte, dell’irriducibile. Nelle varie tappe di questa esplorazione, che mai si allontana, volutamente, da un senso molto lucido e pratico della realtà, Burney s’inoltra nella zona più dubbia, più insidiosa e paradossale dell’esperienza umana, quella in cui riconosciamo a un tempo, nella solitudine assoluta, la tortura del distacco ma anche il bene più prezioso e liberatore.
Così, quando a un certo punto del suo viaggio interiore, Burney decide di non rispondere ai messaggi che un ignoto tenta di trasmettere attraverso il muro della prigione, il suo gesto ci coinvolge ormai in una vicenda che non riguarda tanto un caso particolare, quanto la scoperta di un certo livello di esistenza, quel livello in cui non si accettano più i fatti per una qualche giustificazione o ragione, ma semplicemente in quanto sono.
Un’altra conferma del carattere inconfondibile di questo libro di guerra, dove non troviamo una parola che possa fomentare il vittimismo dei buoni perseguitati, ci è dato dal taglio del racconto, tutto concentrato sui fatti e pensieri essenziali alla comunicazione di una esperienza ben determinata, da una misura anche formale, personalissima, che ubbidisce a quella disciplina impervia, serena, alla quale l’autore deve, forse, di essere riuscito a sopravvivere alle sue vicende e, soprattutto, di averle sapute vivere.